LA GINESTRA O IL FIORE DEL DESERTO

Qui su l'arida schiena
Del formidabil monte
Sterminator Vesevo,
La qual null'altro allegra arbor né fiore,
Tuoi cespi solitari intorno spargi,
Odorata ginestra,
Contenta dei deserti. Anco ti vidi
De' tuoi steli abbellir l'erme contrade
Che cingon la cittade
La qual fu donna de' mortali un tempo,
E del perduto impero
Par che col grave e taciturno aspetto
Faccian fede e ricordo al passeggero.
Or ti riveggo in questo suol, di tristi
Lochi e dal mondo abbandonati amante,
E d'afflitte fortune ognor compagna.
Questi campi cosparsi
Di ceneri infeconde, e ricoperti
Dell'impietrata lava,
Che sotto i passi al peregrin risona;
Dove s'annida e si contorce al sole
La serpe, e dove al noto
Cavernoso covil torna il coniglio;
Fur liete ville e colti,
E biondeggiàr di spiche, e risonaro
Di muggito d'armenti;
Fur giardini e palagi,
Agli ozi de' potenti
Gradito ospizio; e fur città famose
Che coi torrenti suoi l'altero monte
Dall'ignea bocca fulminando oppresse
Con gli abitanti insieme. Or tutto intorno
Una ruina involve,
Dove tu siedi, o fior gentile, e quasi
I danni altrui commiserando, al cielo
Di dolcissimo odor mandi un profumo,
Che il deserto consola. A queste piagge
Venga colui che d'esaltar con lode
Il nostro stato ha in uso, e vegga quanto
È il gener nostro in cura
All'amante natura. E la possanza
Qui con giusta misura
Anco estimar potrà dell'uman seme,
Cui la dura nutrice, ov'ei men teme,
Con lieve moto in un momento annulla
In parte, e può con moti
Poco men lievi ancor subitamente
Annichilare in tutto.
Dipinte in queste rive
Son dell'umana gente
Le magnifiche sorti e progressive .
Qui mira e qui ti specchia,
Secol superbo e sciocco,
Che il calle insino allora
Dal risorto pensier segnato innanti
Abbandonasti, e volti addietro i passi,
Del ritornar ti vanti,
E procedere il chiami.
Al tuo pargoleggiar gl'ingegni tutti,
Di cui lor sorte rea padre ti fece,
Vanno adulando, ancora
Ch'a ludibrio talora
T'abbian fra sé. Non io
Con tal vergogna scenderò sotterra;
Ma il disprezzo piuttosto che si serra
Di te nel petto mio,
Mostrato avrò quanto si possa aperto:
Ben ch'io sappia che obblio
Preme chi troppo all'età propria increbbe.
Di questo mal, che teco
Mi fia comune, assai finor mi rido.
Libertà vai sognando, e servo a un tempo
Vuoi di novo il pensiero,
Sol per cui risorgemmo
Della barbarie in parte, e per cui solo
Si cresce in civiltà, che sola in meglio
Guida i pubblici fati.
Così ti spiacque il vero
Dell'aspra sorte e del depresso loco
Che natura ci diè. Per questo il tergo
Vigliaccamente rivolgesti al lume
Che il fe' palese: e, fuggitivo, appelli
Vil chi lui segue, e solo
Magnanimo colui
Che sé schernendo o gli altri, astuto o folle,
Fin sopra gli astri il mortal grado estolle.
Uom di povero stato e membra inferme
Che sia dell'alma generoso ed alto,
Non chiama sé né stima
Ricco d'or né gagliardo,
E di splendida vita o di valente
Persona infra la gente
Non fa risibil mostra;
Ma sé di forza e di tesor mendico
Lascia parer senza vergogna, e noma
Parlando, apertamente, e di sue cose
Fa stima al vero uguale.
Magnanimo animale
Non credo io già, ma stolto,
Quel che nato a perir, nutrito in pene,
Dice, a goder son fatto,
E di fetido orgoglio
Empie le carte, eccelsi fati e nove
Felicità, quali il ciel tutto ignora,
Non pur quest'orbe, promettendo in terra
A popoli che un'onda
Di mar commosso, un fiato
D'aura maligna, un sotterraneo crollo
Distrugge sì, che avanza
A gran pena di lor la rimembranza.
Nobil natura è quella
Che a sollevar s'ardisce
Gli occhi mortali incontra
Al comun fato, e che con franca lingua,
Nulla al ver detraendo,
Confessa il mal che ci fu dato in sorte,
E il basso stato e frale;
Quella che grande e forte
Mostra sé nel soffrir, né gli odii e l'ire
Fraterne, ancor più gravi
D'ogni altro danno, accresce
Alle miserie sue, l'uomo incolpando
Del suo dolor, ma dà la colpa a quella
Che veramente è rea, che de' mortali
Madre è di parto e di voler matrigna.
Costei chiama inimica; e incontro a questa
Congiunta esser pensando,
Siccome è il vero, ed ordinata in pria
L'umana compagnia,
Tutti fra sé confederati estima
Gli uomini, e tutti abbraccia
Con vero amor, porgendo
Valida e pronta ed aspettando aita
Negli alterni perigli e nelle angosce
Della guerra comune. Ed alle offese
Dell'uomo armar la destra, e laccio porre
Al vicino ed inciampo,
Stolto crede così qual fora in campo
Cinto d'oste contraria, in sul più vivo
Incalzar degli assalti,
Gl'inimici obbliando, acerbe gare
Imprender con gli amici,
E sparger fuga e fulminar col brando
Infra i propri guerrieri.
Così fatti pensieri
Quando fien, come fur, palesi al volgo,
E quell'orror che primo
Contra l'empia natura
Strinse i mortali in social catena,
Fia ricondotto in parte
Da verace saper, l'onesto e il retto
Conversar cittadino,
E giustizia e pietade, altra radice
Avranno allor che non superbe fole,
Ove fondata probità del volgo
Così star suole in piede
Quale star può quel ch'ha in error la sede.
Sovente in queste rive,
Che, desolate, a bruno
Veste il flutto indurato, e par che ondeggi,
Seggo la notte; e su la mesta landa
In purissimo azzurro
Veggo dall'alto fiammeggiar le stelle,
Cui di lontan fa specchio
Il mare, e tutto di scintille in giro
Per lo vòto seren brillare il mondo.
E poi che gli occhi a quelle luci appunto,
Ch'a lor sembrano un punto,
E sono immense, in guisa
Che un punto a petto a lor son terra e mare
Veracemente; a cui
L'uomo non pur, ma questo
Globo ove l'uomo è nulla,
Sconosciuto è del tutto; e quando miro
Quegli ancor più senz'alcun fin remoti
Nodi quasi di stelle,
Ch'a noi paion qual nebbia, a cui non l'uomo
E non la terra sol, ma tutte in uno,
Del numero infinite e della mole,
Con l'aureo sole insiem, le nostre stelle
O sono ignote, o così paion come
Essi alla terra, un punto
Di luce nebulosa; al pensier mio
Che sembri allora, o prole
Dell'uomo? E rimembrando
Il tuo stato quaggiù, di cui fa segno
Il suol ch'io premo; e poi dall'altra parte,
Che te signora e fine
Credi tu data al Tutto, e quante volte
Favoleggiar ti piacque, in questo oscuro
Granel di sabbia, il qual di terra ha nome,
Per tua cagion, dell'universe cose
Scender gli autori, e conversar sovente
Co' tuoi piacevolmente, e che i derisi
Sogni rinnovellando, ai saggi insulta
Fin la presente età, che in conoscenza
Ed in civil costume
Sembra tutte avanzar; qual moto allora,
Mortal prole infelice, o qual pensiero
Verso te finalmente il cor m'assale?
Non so se il riso o la pietà prevale.
Come d'arbor cadendo un picciol pomo,
Cui là nel tardo autunno
Maturità senz'altra forza atterra,
D'un popol di formiche i dolci alberghi,
Cavati in molle gleba
Con gran lavoro, e l'opre
E le ricchezze che adunate a prova
Con lungo affaticar l'assidua gente
Avea provvidamente al tempo estivo,
Schiaccia, diserta e copre
In un punto; così d'alto piombando,
Dall'utero tonante
Scagliata al ciel profondo,
Di ceneri e di pomici e di sassi
Notte e ruina, infusa
Di bollenti ruscelli
O pel montano fianco
Furiosa tra l'erba
Di liquefatti massi
E di metalli e d'infocata arena
Scendendo immensa piena,
Le cittadi che il mar là su l'estremo
Lido aspergea, confuse
E infranse e ricoperse
In pochi istanti: onde su quelle or pasce
La capra, e città nove
Sorgon dall'altra banda, a cui sgabello
Son le sepolte, e le prostrate mura
L'arduo monte al suo piè quasi calpesta.
Non ha natura al seme
Dell'uom più stima o cura
Che alla formica: e se più rara in quello
Che nell'altra è la strage,
Non avvien ciò d'altronde
Fuor che l'uom sue prosapie ha men feconde.
Ben mille ed ottocento
Anni varcàr poi che spariro, oppressi
Dall'ignea forza, i popolati seggi,
E il villanello intento
Ai vigneti, che a stento in questi campi
Nutre la morta zolla e incenerita,
Ancor leva lo sguardo
Sospettoso alla vetta
Fatal, che nulla mai fatta più mite
Ancor siede tremenda, ancor minaccia
A lui strage ed ai figli ed agli averi
Lor poverelli. E spesso
Il meschino in sul tetto
Dell'ostel villereccio, alla vagante
Aura giacendo tutta notte insonne,
E balzando più volte, esplora il corso
Del temuto bollor, che si riversa
Dall'inesausto grembo
Su l'arenoso dorso, a cui riluce
Di Capri la marina
E di Napoli il porto e Mergellina.
E se appressar lo vede, o se nel cupo
Del domestico pozzo ode mai l'acqua
Fervendo gorgogliar, desta i figliuoli,
Desta la moglie in fretta, e via, con quanto
Di lor cose rapir posson, fuggendo,
Vede lontan l'usato
Suo nido, e il picciol campo,
Che gli fu dalla fame unico schermo,
Preda al flutto rovente,
Che crepitando giunge, e inesorato
Durabilmente sovra quei si spiega.
Torna al celeste raggio
Dopo l'antica obblivion l'estinta
Pompei, come sepolto
Scheletro, cui di terra
Avarizia o pietà rende all'aperto;
E dal deserto foro
Diritto infra le file
Dei mozzi colonnati il peregrino
Lunge contempla il bipartito giogo
E la cresta fumante,
Che alla sparsa ruina ancor minaccia.
E nell'orror della secreta notte
Per li vacui teatri,
Per li templi deformi e per le rotte
Case, ove i parti il pipistrello asconde,
Come sinistra face
Che per vòti palagi atra s'aggiri,
Corre il baglior della funerea lava,
Che di lontan per l'ombre
Rosseggia e i lochi intorno intorno tinge.
Così, dell'uomo ignara e dell'etadi
Ch'ei chiama antiche, e del seguir che fanno
Dopo gli avi i nepoti,
Sta natura ognor verde, anzi procede
Per sì lungo cammino
Che sembra star. Caggiono i regni intanto,
Passan genti e linguaggi: ella nol vede:
E l'uom d'eternità s'arroga il vanto.
E tu, lenta ginestra,
Che di selve odorate
Queste campagne dispogliate adorni,
Anche tu presto alla crudel possanza
Soccomberai del sotterraneo foco,
Che ritornando al loco
Già noto, stenderà l'avaro lembo
Su tue molli foreste. E piegherai
Sotto il fascio mortal non renitente
Il tuo capo innocente:
Ma non piegato insino allora indarno
Codardamente supplicando innanzi
Al futuro oppressor; ma non eretto
Con forsennato orgoglio inver le stelle,
Né sul deserto, dove
E la sede e i natali
Non per voler ma per fortuna avesti;
Ma più saggia, ma tanto
Meno inferma dell'uom, quanto le frali
Tue stirpi non credesti
O dal fato o da te fatte immortali.
 
 

 


STEMMA LEOPARDI
(audio)



































































































































































































































































































































 


LA GINESTRA O LA FIUR DAL DEZERT 

Chi ansla schén'a 
di 's mont ca fa pagüra
sémp pront a cumbinè di gran dizastru
andua iè tüt sëc
at crësi mèchi ti, cara ginèstra
cunténta anche 
da vivi anti 's dezèrt.
Già iàva vdìti
fè beli i cuntrà anturn a cula sità 
che l'era an témp la padron'a dal mond,
e i ruìn'i e 'l maestùs silénsiu
i parlu ancura a cui che da là i pasu 
dla gloria dal so imperu che iè pü.
Dès at trov anche chi
's vëd che a ti 't pias fè cumpanìa
a si post abandunà e stè davzin'a
a si dizgràzii grosi.
Anti si camp andua iè mèc dla sënar
andua pü gnénte i crës
andua la lava che l'è fàsi péra
la son'a suta i pé ad cui che i pasu;
adès ià 'l nì la bisa che suta 'l sul sa stors;
dès al cunic' sa scava la so tan'a;
na volta a iéru di bèli sità,di camp bén cultivà
di distéizi 'd gran biond che i favu l'onda
e chi as santiva i béstii che i brügiàvu
iéru di bèi giardìn, di gran palàsi
'ndua ia sgnur i favu bèla vita,
iéru sità famuzi e pupuluzi
e as mont infürià, fazénd e föc e fiami
suta lonche i surtiva dla so buca
l'è cuarcià e sutrà cun i abitant ansèma.
Dès 'ndua t'è ti
l'è tüta na ruvin'a,
e ti t'è cumpasiòn di si maluri grosi,
e at mandi al to prufüm par cunsulèi.
Chi i avrìu da gnì
cui che i dörvu buca par ludè
la stat adl'om ansla tèra
e i vidrìu mè che ia stuma
a cör a la natüra.
Chi anti na giüsta mzüra
ai pölu rendsi cünt
dla putensa dl'om
che, nosa mari, quand a slu spetuma ménu,
la pöl ruvinè anti 'n mumént
e, mèc che bugéisa 'n poc pü fort,
pudrìa scanslèni cumpletamént.
L'è scrit propi chi andua 'n trov adès
che destìn adl'om sarà tüt prugrès.
Gnì vëdvi anti sa spèc' 
o gént adl'età nosa
tant stüpida e süpèrba che cula strà
andua s'andava avanti 
a t'è abandunà
e t'è giràti andréra e 
pö adès tat vanti 
che mèc cuzì 's va avanti.
Robi ién da maznà,ma tüti al bèli tèsti che iàn sa furtün'a
d'èsi nasì avénd par mari ti, at batu tüti
i man e i crìu tüti 'eviva' 
anche se andén ad lur 
i pénsu che 't vali propi 'n bel gnénte.
Ma prima da mori i parlrù ciar,
sut tèra mi i vad nen cun sa vargogna
lonche iu 'n cör i avrù criàlu fort,anche se,lu su bén,
che cui chi parlu ciar
andand contra curént,pö dopu ca ién mort
pü 'nsun 's ricorda  'd lur.
Ma mi, ad suchì mnu rid,
parchè i son sicür che
anche a ti at capitrà cuzì
pü 'nsün at ricurdrà.
Ti at sogni libertà
e 'ntla stès temp at völi che tüti i pénsu tam mè ti.
Anvéce l'è pusibil civiltà e che al mond a vada méi la sucietà
mèc se 's pöl andèi près la razòn.
Ma 't völi nen 'cetè la düra verità
che l'om,an tèra, al cünta propi poc
ià l'ültim post e che 'd lü Natüra nanca snu cüra.
E cuzì ti,che t'è giràti andré,
at dizi a tüti 'anduma avanti'
e a cui che sémp i van par la so strà,
dazi ma vers la luce, t'ai dizi ancù 'vigliàc,parchè ia scapi',
par mi l'è 'n dritu o 'n fol, che 'l trasa i àuti o 's pìa 'n gir lü,
chi al porta i omni fin adzura ia stéili.
L'om che i abia cör e tèsta 'nsal col,
se lu tira magra 
da povri diàu
se  mèc ià poca paia 'ntla bastin'a,
tlu sénti nén blaghè, e dì
che lü l'è n'omu rubüst
e carià 'd sold
ma gnénte a scond 
e 's fa vëdi mè l'è.
Sénsa 'nsün'a vargogna, 
e 'd tüti i robi al dà giüdisi giüst.
Omu anteligént e che vala tant,
propi mi i crëd nén che i sia
ma, al cuntrari, stüpid
iün che savénd, tra l'àut,
che 'l duvrà mori e che,mè tüti l'è stantà a gnì sü
al dis 'nui suma chi par fèsla bén' ,
e 'l püblica 'nsi libar robi foli
prunusticànd a l'om an gran destìn,
na gran felicità che 'nsün cunòs,
e nanca 'n cél l'ezìst,
par tüti i gént dal mond e par sa tèra,
che basta n'onda 'd mar, n'epidemìa,an taramòt
par sterminè cuzì che gnénte i rèsta 'd lur, nanca 'l ricòrd.
Par mi 'nvéce, l'omu ca val a l'è cul che 'l destìn cumün
a ià 'l curàgi ad vardèlu 'n facia,
'd fisèlu 'nti öc', cul che,parland s'ciancà,
a dis lonche i va,
sénsa gnénte giuntè o gavè
cul che 'l cunfèsa tüt al mal ca l'è tucàni,
la nosa cundisiòn, cuzì 'nsicüra;
iün che 'l musta la forsa e la grandësa,
tüt supurtànd lonca 's pöl nén cambiè,
ciuè cul mal che dipénd nen da nui
e as mal che iùma lu auménta nén udiànd
i so fratéi e ufandéndii e dal mal ca ià 
i dà nen la culpa a l'om,
ma a cula che dabòn ià culpa
e,da na part l'è mari parchè 'n büta al mond
ma, al cör, a ià 'd marëgna
custa sì ca 'n völ mal e contra 'd lé
mi i völ che tüti i omni,bianc,negar e giald 
sa strénzu tüti 'nsèma 'n sucetà
vuléndsi ben e dand aiüt a i àuti 
e i àuti a nui
secònd che i sìa abzògn,
parchè davanti a lé
i suma uguai
e mèc a lé iùma da fèi guèra.
 Ma piè i armi par fèi guèra a l'om
o zgambitè 'l to vzìn par starmèlu
i crëd sia stüpid mè se,bütùma, 
cui che 's diféndu
'nti na sità asedià,
ansal pü bèl che i atacu cui da fora
i urganizéisu di düéi,di loti tra 'd lur,
tra cui da 'ndén,
zgarànd cuzì par nén forsi presiùzi.
E quand cula che prima l'éra pagüra
che tüti iàvu contra natüra
che da lì l'è nasìi la sucetà,
sarà ancura na véra cunvinsiòn
fundà 'nsla razòn,alura al vivi ansèma
bén guvernà da parson'i civil
second la giüstìsia e la cumpasiòn
i avràn bén àuti radìs e fundaménti
che nén dal bali e di a storii foli
che iùma vist che,fundà 'nsi culi,
l'è stai mai an pé na custrüsiòn
par fè che i omni i rüziéisu pü,
ma mè castéi ad sabia ién andà giü.
Suvént, stand chi satà la nöt
davanti si tèri che zmìu vistìi a lütu
da quand,buiénta, l'è cuarcài la lava
e dès l'è chi,düra mè na péra
e zmìa ancura quazi a faga l'onda,
dzura a sa tèra grama par sa volta dal cél pulìt,serén,
i vëd là,àuti brilè ia stéili 
e luntàn specèsi antla spec' dal mar.
E tüti an gir,citi mè di falospi,spléndi antal vöid serén.
E quand che i öc' i fis a culi luci 
che a lur ia zmìu mèche puntìn 
e ién anvéce cuzì tant grosi
che 'n cunfrònt a lur 
veramént a ién di puntìn;
la tèra e 'l mar ansèma e nén meche l'om,
l'om l'è 'n gnénte,lur san nan che i sìa.
E quand i fis cui  püsè ancù luntàn,luntàn,
mè iù da dì,grup,nivuli da stéili,
cuzì ligeri e fin'i tam mè nèbia,
e che da là nén mèc l'om,
nén la tèra,ma 'nsèma cun al sul
i nosi stéili par nümar e grandësa
sénsa fin, sicür, ognün sa s'ciaru
o i fan stèsa figüra che i fan
culi da la tèra, di 'n puntìn,
na macëta 'd luce, 
alura, sméns adl'om
che tam azmìi?E se i péns 
al to stat chi giü 'nsla tèra
e ién na prova i post andua 'm trov,
e,d'àuta part i péns che ti t'è sémp cardì
e dit che t'éri ti al padròn,
tüt l'éra fat par ti e vari volti t'è inventà 
di a storii che anti 's granìn ad sabia 
scunusü che i ciamu tèra 
propi par cauza tua
cui che ién fat tüti i creatüri di 's mond ién calà giü
par vivi an mès a nui
püsè 'd na volta tam mè nos parént
e che arnuvànd di sogn che i favu ridi,
anche sa nosa età,che par cunusénsa
e civiltà as crëd da èsi süperiùra
a tüti, snu 'nfùt ad cui che i san,pochi?
Alura i su nén se iù da ridi o avéi cumpasiòn.
Tam mè d'autün, an früt da na quai pianta,
cuzì,parchè madür,sénsa àuta cauza,
cascànd giü al disfa 
culi cazëti 
che i povri furmìi
iàvu scavà cun an travài da certuzìn
sut tèra,culi pruvisti 
che iàvu rabaià cesànd mai d'andè 
sü e giü par tüt al témp d'istà
di 'n culp, i dig,dìsfa squìcia e sutra;
cuzì,piuvénd dal cél,
da cula gula fonda
da dop ca ién sautà par aria an mès ai lozni e i tron,
sënar,saiòc e péri
e tüta na ruin'a a rubatava füriùza 
an mès a l'èrba 
cun i ruzi dla lava
na fundüa 'd metài,
sabia brüzénta 
vnénda giü a bas
tam mè na gran büra
culi sità ca iéru an riva al mar
l'è mis'ciài,squiciài,sutrài 
'nti 'n mumént
e dès, adzura a lur
i mangiu i cravi
e àuti sità a ién da l'àuta part
ansima i mür ruvinà ad culi ad prima che ién li suta
e che 'l mond cuzì aut,zmìa völa schisè suta i so pé.
Ià nén natüra a la smérns a dl'om
pü stima o cüra che par i furmìi
e se 't dizi che d'omni nu mor ménu
la razòn l'è mèc custa:
che al mond 
iè ménu omni che furmìi.
Già milaötsént ani ién pasà
da quand
suta la puténsa di cul föc 
di sità antéri ién scumparì
e 'l povri paizàn 
che 'l cüra la so vigna 
anti sa tèra andùa iè mac dla sënar
ancura l'àusa i öc' a cula ponta
che l'è 'ncù mai cesà da fè pagüra
e l'è là che,duminànd da 'nsl aut, zmìa i diga:
mi i son semp chi,
pös masè ti e i to fiö,gavèti al poc ca t'è.
Suént al mischìn ansla trasa 'd cà
tüta la nöt la sta zvic',e atént, 
e s'ausa vari volti
andè a vardè che strà la pìa la culàda 'd föc
che cèsa mai 
da gnì fora ad cula gula
giü par al fianc dal mont
che ià davanti ad Capri la marin'a,
al bèl port ad Napuli e Mergellina.
E se lu vëd vzinèsi o se 'l sént la giü
'n fond al pus l'acua barbutè,
la zvigia i fiö,
la zvigia la so dona
e,purtand via lonche i pölu piè
ia scapu, e daré i vëdu
da luntàn la so cà,'l so nì
e cul fasulët ad tèra che i dava giüst da mangè
andè suta cul turént buiént
che sénsa pietà,s'ciupatànd, al riva
sa sténd ansìma e cuèrcia tüt par sémp.
Dès turna a la luce Pompèi
tam mè 'n corp sutrà 
che cuzì,par cas
o parchè ién vulülu i so parént
l'è turnà a sorti 
a l'aria e al sul;
da 'n mès la fila di culòni ruti
che iéru al foro,al céntru dla sità
ién lì ca 's vëdu culi dui ponti
e la crësta ca füma
che ancù fa pagüra adzura i ruìn'i.
E 'ntal cör dla nöt
par i teatru vöid,
sü par i mür sfurmà
e tüti ruti i cà 'ndua iàn al nì i rati vulùri
tam mè par ia stansi di 'n vec' palàsi
's vëd travèrs ia fnèstri 
parplè na fiama misteriuza
che porta mal, cuzì la lòzna sémp la lava visca
'ntla scür dla nöt e tüt lonca iè 'nturn  la ténz ad rus.
Pö cula che l'om la sa nan che i sia,
nanca as ricorda lé di témp antìc
o dla fila di pari di nos nonu giü fin'a i fiö di fiö,i anvùd di anvùd
l'è lì, sémp vërda e giùuna,la natüra
an dà nanc da mént,la va par la so strà
cuzì dàzi ca 's vëd nanca bugè.
Antànt i van giü imperatùr e rè pasu gént e linguagi,nanca iu vëd.
E l'om al parla pö d'eternità.
E ti,cara ginèstra,
che 't fè bèli si campagni abandunà 
e tai dè 'l to prufüm, anche par ti
andrà nén tant che da sut tèra
avnirà föra 'l föc cun na gran voia 'd divurè tüt
mè che già l'è fat,
'nsi to pianti sa standrà na cuèrta gréva
e suta 'l péis ti ta sbasrè la tèsta
avénd nanca na culpa:
ma ti però t'avrè nen sbasàla tam mè i vigliàc i fan
par fègli bon'i a cul destìn che 't masa
e t'avrè nen ausàla anvèr ia stéili
par na süpèrbia fòla
o cardéndti padron'a dal dezèrt
andua ti t'è nén ad to vuluntà
ma parchè cuzì l'è vulü 'l destìn.
Ti püsè brava che l'om e pü forta 
parchè t'è mai cardì
che ti o i to che tüta la to rasa
parchè tlu crëdi ti o l'éra destinà
duvéisi mai avéi vita imurtàl.